Maria Rebecca Ballestra | LABRYS
Opening
Venerdì 20 Aprile 2018 – 20,30 | 22,30
Alla Galleria SPAZIO TESTONI, Bologna in Via D’Azeglio 50, Venerdì 20 Aprile 2018 dalle 20,30 alle 22,30 inaugura l’esposizione di opere realizzate per il progetto LABRYS di Maria Rebecca Ballestra e a cura di Giorgia Gastaldon, che durante questa serata inaugurale insieme presenteranno in anteprima anche il catalogo monografico sul progetto stesso appena pubblicato da De Ferrari Editore di Genova.
Labrys è un progetto di arte contemporanea ideato e realizzato dell’artista visiva Maria Rebecca Ballestra che, come suggerisce il titolo stesso, indaga il tema – simbolico e visivo – del labirinto, prendendo spunto dalla lettura dei testi di Julien Friedler The Truth of the Labyrinth. Il progetto si è sviluppato durante due anni attraverso nove tappe, ciascuna delle quali si è concretizzata nella realizzazione di una o più opere d’arte, frutto di collaborazioni con altri protagonisti del mondo del contemporaneo (artisti, coreografi, attori, scrittori, e così via…), e in residenze d’artista nazionali ed internazionali.
Oltre alle opere realizzate interamente da Maria Rebecca Ballestra ed in collaborazione con altri artisti, e quelle realizzate dagli artisti invitati, accompagnano questa esposizione allo Spazio Testoni sei storici documenti fotografici sull’opera di Land Art Spiral Jetty realizzata nel 1970 da Robert Smithson a Rozel Point, Great Salt Lake, Utha – USA, e l’opera di Aldo Spinelli Il segno e il simbolo del 1978, entrambe gentilmente concesse dalla Galleria UnimediaModern di Genova.
Il soggetto “labirinto” non è scelto dall’artista in maniera casuale, anzi: Maria Rebecca Ballestra porta avanti la sua riflessione su questo tema proprio alla luce della constatazione che l’immagine del labirinto, nei diversi secoli e civiltà, è stata sempre investita di significati diversi e “altri”. Nelle varie tappe di questo progetto, infatti, l’artista indaga, di volta in volta, un aspetto diverso legato all’immagine ed al concetto di labirinto e ciascuna di queste riflessioni rappresenta una diversa tappa di Labrys.
Grazie al sostegno della Regione Friuli Venezia Giulia ed alla preziosa ospitalità del Centro di Salute Mentale Parco Basaglia, l’intero progetto – realizzato anche grazie alla promozione di Altreforme Udine – si è concretizzato in una serie di mostre, tavole rotonde, laboratori didattici, performance, che si sono svolte a Gorizia da Ottobre 2017 a Marzo 2018.
Il progetto affonda le sue radici su una solida ed intricata rete di partner tecnici e scientifici. Nei mesi della sua gestazione, infatti, numerosissime sono state le realtà che hanno fornito, nei modi più diversificati, il loro prezioso contributo allo svolgimento ed alla realizzazione dell’ambizioso programma di Labrys.
Oltre ai partner internazionali – si segnalano a tal proposito Signal Fire Art (Arizona), The Emily Harvey Art Foundation di Venezia e la Fondazione Spirit of Boz (Associazione Julien Friedler per l’Arte Contemporanea Italia-Belgio) che hanno ospitato in residenza Maria Rebecca Ballestra in alcune delle tappe del progetto – numerosi sono gli enti che hanno creduto nel progetto concedendo pertanto il loro patrocinio: ricordiamo, tra gli altri, l’Università degli Studi di Udine, l’Azienda di Servizi Sanitari della Bassa Friulana Isontina, il Comune di Gorizia, il Giornale delle Fondazioni, la Biblioteca Statale Isontina, nonché il Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’ateneo triestino.
Dopo Gorizia il progetto Labrys – caratterizzato da una forte natura nomade – si sposta a Bologna ospite della galleria Spazio Testoni, anch’essa tra i partner di questo progetto e che dal 2012 rappresenta il lavoro dell’artista Maria Rebecca Ballestra.
L’esposizione resterà visibile fino al 30 Giugno 2018.
Sito web del progetto:
www.labrysproject.com
Con il supporto e il patrocinio di:
Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
Azienda di Servizi Sanitari n. 2 Bassa Friulana Isontina
Comune di Gorizia
Università degli Studi di Udine
Biblioteca Statale Isontina di Gorizia
De Ferrari Editore, Genova
KB 1909
Studio Faganel, Gorizia
Kinemax, Gorizia
Agoré, Associazione di Promozione Sociale, Gorizia
gCguru
Con il partenariato di:
Spirit of Boz, Associazione Julien Friedler per l’Arte Contemporanea (Italia-Belgio)
The Emily Harvey Foundation, Venezia
Il Giornale delle Fondazioni
Signal Fire Art, Arizona (USA)
Teatro delle Nuvole, Genova
Proballet, Sanremo
Università degli Studi di Trieste, Dipartimento di Ingegneria e Architettura
Galleria Spazio Testoni, Bologna
Galleria UnimediaModern, Genova
Teatro delle Nuvole, Genova
Proballet, Sanremo
Università degli Studi di Trieste, Dipartimento di Ingegneria e Architettura
Radio Fragola
ISIS D’Annunzio
Liceo Artistico Max Fabiani di Gorizia
Liceo Classico di Gorizia
Liceo Scientifico Duca degli Abbruzzi di Gorizia
Gruppo Europeo di Cooperazione Territoriale GECT-GO
Progetto grafico Fludesign
Sito web Remigio Guadagnini
Catalogo De Ferrari Editore, Genova Aprile 2018
Testi di Giorgia Gastaldon
Traduzioni Caterina Guardini (supervisione e coordinamento), Aja Bain (revisione finale)
Galleria
SPAZIO TESTONI
Via D’Azeglio 50 – 40123 BOLOGNA
Tel. +39 051371272 – 051580988
M.ph. +39 3356570830
info@spaziotestoni.it
www.spaziotestoni.it
Orari di apertura:
dal martedì al venerdì dalle 16.00 alle 20.00
sabato dalle 10,30 alle 13,00 e dalle 16,00 alle 20,00
domenica, lunedì e altri orari su appuntamento
MAURO PANICHELLA
Floating Venice (The last hope is the unexpected), 2015
video, 7’56”
courtesy of Emily Harvey Foundation, Venezia
Floating Venice è un’opera video girata nelle calli della città di Venezia. Per la particolare tecnica di ripresa delle immagini, cui ricorre l’artista Mauro Panichella, questo lavoro finisce, inevitabilmente, per indagare il tema della soglia, del limite, del suo superamento. Per tutta la durata del video, infatti, lo sguardo dell’osservatore “galleggia” a pelo d’acqua, obbligando ciascuno di noi a osservare la città di Venezia sotto un nuovo, inedito punto di vista: quello che sta al limite tra due elementi fondamentali, come l’aria e l’acqua. Per realizzare quest’opera l’artista ha costruito gli strumenti a lui necessari, come ad esempio la “boat cam” che gli ha permesso di effettuare delle riprese così particolari di Venezia. Con questo specifico mezzo egli ha poi “esplorato” in lungo e in largo la città lagunare, tracciando al suo interno un percorso labirintico, che prevedeva deviazioni, ritorni sui propri passi, bivi, momenti di smarrimento, risolti poi in ulteriori bivi e in nuove vie ritrovate.
BERTY SKUBER
Passages: video frames: the way in, the way out, 2016-2017
fotomontaggio su tela, 150 x 117,5 cm
Walls: Venice: a labyrinth of brick, 2016-2017
fotomontaggio su tela, 150 x 117,5 cm
Labyrinths: real, imagined, dreamed, transformed, 2016-2017
fotomontaggio su tela, 150 x 117,5 cm
Il tema del labirinto è da sempre parte del lavoro e della ricerca artistica di Berty Skubert, che infatti ha dedicato a questo soggetto, nel 1977, un’intera mostra, intitolata Labyrinths and Particulars. Per l’artista l’immagine del labirinto è assimilabile all’azione del pensare e infatti questo tema è spesso associato, nella sua opera, a quello della traiettoria e del percorso. Un labirinto, però, è di norma composto anche dalle pareti che delimitano lo spazio del camminamento. Da qui deriva, dunque, il parallelismo tra le pareti del labirinto e quelle degli edifici che costituiscono le città, come Venezia o una kasba marocchina, di cui possiamo osservare una serie di frammenti nelle opere qui presenti, affiancati all’esempio del labirinto arboreo, certamente la forma più “morbida” e naturale esperibile di questo paradigma. Il percorso proposto dall’artista in questa serie di tre lavori, dunque, è chiaro e lineare: un passaggio da una realtà concreta (l’immagine dei muri degli edifici urbani) a una realtà mentale che è un semplice completamento e ampiamento della precedente.
MARIA REBECCA BALLESTRA – NINA BACUN
Re-flection, 2018
33 stampe su carta
42 x 29 cm ciascuna
opera realizzata durante una residenza per artisti alla The Emily Harvey Foundation, Venezia
Il tema del labirinto come percorso, come spazio fisico che va sperimentato con il proprio corpo, attraverso l’atto del camminare. Il risultato finale consiste in una mappa psico − geografica di Venezia, città nella quale Maria Rebecca Ballestra e Nina Bacun hanno soggiornato per una residenza d’artista. L’opera Re−flections è il frutto di un’operazione di ispirazione dada: le due artiste coinvolte hanno esplorato la città di Venezia seguendo due percorsi diversi e casuali, dettati da una scelta istintiva, ogni volta diversa, adottata di fronte ad ogni incrocio di due calli. L’operazione è assimilabile a una deambulazione, a un camminare senza meta, a un procedere puramente erratico. Il tema affrontato è quello dell’immaterialità urbana, nel senso di esperienza personale e virtuale di una città che ognuno di noi può avere percorrendone le vie. Quest’operazione è stata realizzata in connessione con l’idea, di stampo dadaista e surrealista, che l’atto del percorrere uno spazio urbano possa essere paragonabile ai percorsi seguiti dal nostro pensiero. L’opera prende spunto dalla pratica dadaista delle escursioni urbane, avviate nel 1921 a Parigi; i dadaisti erano soliti deambulare per la città rendendo delle apparentemente banali passeggiate delle vere e proprie operazioni estetiche, intese come forme di “anti−arte”.
JULIEN FRIEDLER
Variation 1, La Parole des Anges, 2002
inchiostro e acrilico su tela, 140 x 100 cm
Parole des Anges, sans titre, 2001
inchiostro e tecnica mista su tela, 140 x 100 cm
La Parole des Anges è un ciclo pittorico volto a coniare e sviluppare un linguaggio codificato dal sapore primordiale ed esoterico, basato su una mistica del segno. L’alfabeto con cui sono stati realizzati i quadri qui esposti, infatti, è, di fatto, un simbolismo, una lingua in cui ogni simbolo corrisponde ad un concetto fondamentale dell’esistenza umana (Il Nulla, Dio, Il Destino, La Donna, L’Uomo, ecc ecc). La ripetizione e l’accostamento di questi diversi simboli permettono dunque la nascita di un discorso articolato e sensato. Il linguaggio di queste tele, però, non è un linguaggio esclusivamente ermetico: la conoscenza del codice in questione, infatti, non è poi così fondamentale e non costituisce l’unica via d’interpretazione dell’opera. Ciò accade perché siamo pur sempre in presenza di un’opera di pittura, caratterizzata da una libertà di composizione, di giustapposizione di segni, di accostamento dei colori. Queste opere, dunque, vivono anche di un loro interesse plastico autonomo e autoreferenziale.
MARIA REBECCA BALLESTRA – WEN CHIN FU
Inner Game, 2017
n. 6 disegni + n. 6 suoni
Nella cultura orientale il labirinto è da sempre caratterizzato da un valore ludico legato alla dimensione del gioco. In occasione della presentazione dell’interno progetto a Gorizia, Maria Rebecca e Wen Chin hanno realizzato al Centro di Salute Mentale Parco Basaglia un’opera partecipativa, in cui il pubblico era invitato a completare attraverso azioni semplici il lavoro delle due artiste. Un grande labirinto disegnato con inchiostro a conduzione nascondeva otto tracce audio che potevano essere “scoperte” scorrendo il dito sul disegno. Il prodotto finale di questa partecipazione prende forma in otto disegni realizzati dal pubblico accompagnati dalle otto tracce sonore che erano nascoste nel labirinto.
ALDO SPINELLI
Il segno ed il simbolo, 1978
tecnica mista su carta,
tre pannelli, 57,5 x 82,5 cm ciascun elemento
courtesy UnimediaModern gallery
Il lavoro di Aldo Spinelli si confronta con il tema del labirinto fin dagli anni Settanta, quando avviò le sue prime sperimentazioni di commistione tra il paradigma della scrittura e quello dell’immagine labirintica. Nel 1972, infatti, egli utilizzò per la prima volta le nove lettere che formano la parola “labirinto” per comporre proprio l’immagine di un labirinto, percorribile con lo sguardo e la mente. A questa sperimentazione diede poi varie forme: tridimensionale − con la realizzazione di sculture di spilli e filo di lana, o maquette in legno −, grafica − con la stampa dei suoi libri d’artista −, incisa nel marmo, realizzata in dimensioni ambientali, e così via. Prendendo il via da questa prima sperimentazione egli ha applicato lo stesso sistema alle opere successive, dando il via alle serie dei labitesti − labirinti creati partendo dalle lettere di un’opportuna citazione − o i labiritratti. A quest’ultimo ciclo appartiene il lavoro qui presente Labirinto di Caterina Gualco, in cui Spinelli ha realizzato un’immagine labirintica partendo dalle lettere che compongono il nome della collezionista e gallerista che, tra le altre cose, è la proprietaria dell’opera stessa.
MARIA REBECCA BALLESTRA
L’isola delle lacrime, 2017
stampa fotografica e specchio
70 x 100 cm
Il tempo capovolto, 2017
stampe su carta (30 x 40 cm) e pietre
dimensioni variabili
L’opera è ispirata alle Isole Solovki: un arcipelago della Russia nord − occidentale collocato vicino alla Finlandia e distante poche centinaia di chilometri dal Circolo Polare Artico. Su queste isole sono conservati alcuni antichi labirinti in pietra di cui non si conosce, ad oggi, la funzione originaria. Le Isole Solovki furono anche sede di un importante monastero, costruito nel XV secolo e profanato ai tempi della Rivoluzione Russa, quando la stessa cattedrale fu trasformata in un dormitorio. Negli anni Venti del Novecento, infine, il monastero stesso − che per la sua posizione rendeva impossibile qualsiasi tentativo di fuga − venne trasformato nel primo gulag del regime bolscevico. Maria Rebecca Ballestra ha deciso di dedicare una riflessione ai labirinti delle Isole Solovki e legarne l’esistenza al tema del mistero che è collegato a quello della fede, per i luoghi di culto qui presenti. Il motivo del mistero è riferibile poi, anche, alla sparizione di numerosissime persone che furono qui imprigionate. Il paradigma del tempo è legato al lavoro dell’intellettuale russo Pavel Florenskij: detenuto dal regime sovietico in queste isole egli dedicò numerose sue pubblicazioni e riflessioni proprio a questo tema. Nella seconda opera, infatti, troviamo alcune pagine accartocciate tratte proprio dal suo scritto La prospettiva rovesciata. Questi fogli, porzioni del pensiero di questo filosofo e matematico, non sono più leggibili, ma non hanno certo perso il loro significato e infatti il loro contenuto è comunque intuibile dalle singole parole ancora visibili. L’osservatore è dunque spinto, quasi costretto, a uno sforzo intuitivo, al fine di accedere a questa dimensione di riflessione mistica e immateriale. Al centro di questi fogli accartocciati sono poi presenti dei sassi, che rappresentano il peso della vita materiale, del dolore della prigionia; il loro essere pietre rimanda poi al materiale con cui sono costruiti i misteriosi e antichi labirinti di queste isole. Questi oggetti poggiano anch’essi su delle superfici di specchio che ci ricordano l’illusorietà che caratterizza spesso le nostre esistenze.
ROBERT SMITHSON
Spiral Jetty, 1970
Rozeol Point, Great Salt Lake, Utah (U.S.A.)
6 documenti fotografici
copyright Anne Gold, courtesy UnimediaModern gallery
Spiral Jetty è un’opera di Land Art lunga circa 450 metri e larga 5, realizzata da Robert Smithson nel 1970, con basalto nero, cristalli di sale, terra e acqua: tutti materiali presenti nell’ambiente naturale del luogo prescelto. Questa spirale, classica effige di labirinto unicursale, permette a chi la sperimenta di addentrarsi nel lago, oltre la riva, raggiungendo il centro del percorso immaginato dall’artista. Smithson scelse Rozel Point per realizzare quest’opera per alcune qualità fondamentali di questa zona degli Stati Uniti, come il quasi totale isolamento di questo luogo, che rendeva il paesaggio in questione il più “naturale”, e meno antropomorfo, possibile. In aggiunta l’artista era affascinato dal colore rossiccio che caratterizza l’acqua in questa specifica parte del lago: questa tonalità, causata dalla presenza di una particolare alga, gli ricordava infatti una sorta di “brodo primordiale”. La spirale è soggetta al salire e scendere delle maree: emerge e sparisce continuamente all’interno delle acque del lago a seconda del momento del giorno e della stagione dell’anno. La scelta di realizzare qui quest’opera fu motivata anche dall’interesse che Smithson nutriva verso i fenomeni dell’entropia: l’altissimo livello di salinità che caratterizza il Great Salt Lake, infatti, finisce per accelerare notevolmente l’inevitabile processo di erosione della spirale, che cambia così in continuazione la sua forma e presenza nello spazio.
MARIA REBECCA BALLESTRA – MAURO PANICHELLA
Labrys, 2017
ricami su tela di cotone,
neon, elementi metallici
dimensioni variabili
Quest’opera, realizzata a quattro mani da Maria Rebecca Ballestra e l’artista visivo Mauro Panichella, condivide il suo titolo − Labrys − con l’intero progetto e per questo possiamo affermare che questa tappa sia di primaria importanza per l’intero percorso di ricerca sviluppato dall’artista. Maria Rebecca Ballestra, infatti, non a caso ha scelto il termine “labrys” come titolo del suo intero progetto scartando, per esempio, il vocabolo “labyrinthos”. Questa preferenza è legata all’idea per la quale qui non si voleva approfondire una particolare immagine o forma di labirinto. La riflessione, in questo caso, era infatti concentrata principalmente sul significato del simbolo del labirinto, sull’indagine dei suoi aspetti mitologico−simbolici, sulla sua dimensione subconscia. In tal senso la parola “labrys” assumeva una valenza maggiore e più pregnante, poiché si concentrava sull’istanza della dualità. “Labrys”, infatti, era il nome con cui si indicava nell’antichità una particolare forma di ascia doppia, oggetto che rappresentava il dilemma, la scelta duale, l’incontro di polarità fondamentali e fondanti per la loro universalità, come il maschile e il femminile, la luce e il buio, il positivo e il negativo, il manifesto e l’inconscio. I due artisti indagano il tema del labirinto in mitologia e, in particolare, il mito del Minotauro. L’opera è il risultato di un serrato dialogo intercorso tra Maria Rebecca Ballestra e Mauro Panichella: di questi scambi, volutamente avvenuti per mezzo di una corrispondenza scritta, alcuni stralci sono ricamati in rosso su stoffa bianca mescolati, a loro volta, a parole tratte da testi dello stesso Julien Friedler. La tecnica del ricamo in cotone su stoffa non è casuale, ma vuole riportare alla nostra mente l’immagine del filo di Arianna. A terra, poi, troviamo due piastre di due metalli diversi, incastrate tra loro a formare l’immagine della doppia ascia del titolo. A completamento dell’installazione su questa base metallica poggiano due neon di colore diverso a ricordare, ancora una volta, la dualità della nostra esistenza.
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