Caroline Le Méhauté – SILENT

Caroline Le Méhauté – SILENT

a cura di Alberto Mattia Martini

14 dicembre 2013 – 1 febbraio 2014

Vernissage
Sabato 14/12/2013 dalle 18,30 alle 20,30

Sabato 14 Dicembre 2013 la galleria SPAZIO TESTONI Bologna in Via D’Azeglio 50, inaugura la prima personale italiana dell’artista francese Caroline Le Méhauté, che resterà visibile fino a sabato 1° Febbraio 2014.

SILENT è il titolo che Alberto Mattia Martini, curatore della mostra, ha voluto attribuire al corpus di opere presentate negli spazi della galleria, come sintesi tematica di questa esposizione, che indaga la correlazione che intercorre tra “natura, umano, aria, spazio e terra”. Un rapporto silente, quasi un vincolo che prevede necessariamente una totale predisposizione mentale da parte del fruitore ad istaurare con l’artista e le sue opere quella che Caroline Le Méhauté definisce: Négociation.
L’artista francese nella sua ricerca si avvale di molteplici materiali come: torba e fibra di noce di cocco, metallo, chine, acquerelli, paraffina, pigmenti ed elementi naturali di vario genere, dai quali prorompe un’energia creativa, apparentemente sospesa nel tempo, che innesca una comunicazione silenziosa tra natura e uomo.
Caroline Le Méhauté vive e lavora tra Marsiglia e Bruxelles ed ha già al suo attivo numerose esposizioni e residenze artistiche internazionali.
Presso la galleria è disponibile il suo primo catalogo monografico“Créer en creux” in inglese e francese cm. 30×25 pp. 128 – Editions Muntaner- Francia.
La mostra farà parte del circuito Art City Bologna 2014 e Insieme con opere di Maria Rebecca Ballestra e L’orMa, una grande installazione di Caroline Le Méhauté realizzata con polvere di guscio esterno di noce di cocco, materiale che caratterizza molte sue opere, sarà presentata dalla galleria Spazio Testoni anche in Arte Fiera 2014.

 

 

 

Descrivendo ed interpretando il significato della LandArt, Gillo Dorfles sostiene che la particolarità di quella che viene denominata anche Earth Art, è un intervento sulla natura e nella natura. Questo “contatto” con e nella natura non è un’attività fisica e concettuale finalizzata ad una intenzione edonistica e/o ornamentale, ma è una presa di coscienza dell’intervento dell’uomo su elementi che presentano un ordine naturale e che da tale intervento sono sconvolti ed incrinati. Caroline Le Méhauté, pur non potendo essere annoverata tra gli artisti della Land Art sia per una questione anagrafica che per una contestualizzazione dell’oggetto artistico non solamente finalizzato al naturale, interpreta perfettamente il senso del “sublime naturale”. Il rapporto uomo-natura, e di conseguenza arte-natura-uomo, vede i suoi natali tantissimi anni orsono. Possiamo affermare che è sempre stato un trinomio imprescindibile nella storia dell’umanità, già dai primi interventi dell’uomo nelle proprie dimore ancestrali attraverso interpretazioni del mondo naturale e animale, ricercando quindi un’indissolubile congiunzione tra soggetto, concetto ed oggetto naturale. Un’attitudine, quella di interagire e quindi interferire con il naturale e con l’ambiente, che trova dimora anche nella ricerca di Caroline, dove la natura diviene mondo, fonte d’ispirazione e sorgente da dove trarre l’idea e la materia con cui potersi confrontare. In un certo senso Le Méhauté si orienta verso l’Antiform, nel senso di Process Art, non per la tipologia dei materiali utilizzati, quanto nel tentativo di liberarsi delle strutture formali e procedere verso una rielaborazione e sperimentazione della materia e delle sue opportunità di interazione con l’ambiente, la forza di gravità, l’aria, lo spazio, la terra e quindi con tutto ciò che è instabile, che impone o subisce modifiche ed è quindi indeterminato. Inevitabilmente la scelta di utilizzare la materia a diretto e libero contatto con lo spazio, non rimanendo ancorata alla struttura ospitante presuppone o consente una relazione non fissata od imposta, quindi rinchiusa all’interno di sovrastrutture formali e di pensiero lasciando comunque libera la creazione di vagare nell’ambiente e tra il fruitore: forse con il rischio di dissolversi e di vivere nell’impalpabile, ma certamente di essere totale.
Il materiale e quindi l’elemento che contraddistingue l’opera di Caroline, e che immediatamente diviene protagonista, è la fibra o torba di noce di cocco. Scelta dovuta anche all’effetto del caso, anche se come si sa molto probabilmente esso non esiste, o perlomeno in una piccola percentuale, molto più verosimilmente dovremmo parlare di circostanze, di momenti o particolari attimi nei quali si creano delle inevitabili contingenze dove avviene l’incontro e poi la simbiosi. Voglio credere al mistero che conduce ognuno a trovare il suo alter ego, non trovato senz’altro a cuor leggero, bensì attraverso la ricerca e la sperimentazione come fasi necessarie e determinanti. La “pelle” del cocco, così come la parte esterna del corpo umano, è imprescindibile, sensibile, e pur nella sua rassomiglianza risulta peculiare ed unica. Questi filamenti bruni, fitti, marroni inducono a privilegiare una similitudine con l’umano: sia visivamente che nella conformazione ricorda i peli o i capelli, entrambi materiali organici che crescono esternamente alla struttura, la ricoprono. Originariamente anche nell’uomo rivestivano una funzione protettiva e sensoriale, che è sfociata solo successivamente nei territori dell’estetica, valore imprescindibile per l’”edificazione” della vita così come dell’arte. Il cocco, e quindi di conseguenza anche la sua fibra, presentano ambiguità: grazie all’altezza della pianta, poeticamente potremmo dire che ha dimora nell’etere, tra le nubi, anche se le radici sono ben ancorate al terreno, dal quale sembra assumere, oltre che la colorazione marrone anche alcune caratteristiche come la resistenza e la caparbietà.

La Le Méhauté infatti “scortica” l’involucro, ne trae e ne estrae l’essenza mettendo in relazione il dentro della terra, la concretezza con il fuori dell’aria, l’inconsistenza impalpabile dell’astrazione. Ecco che interviene, o meglio ritorna, la correlazione tra “natura, umano, aria, spazio e terra”. Tutte queste figure sono tangibilmente visibili nel lavoro di Caroline, tranne l’uomo, che tramite la sua assenza materiale, pur negando la sua fisicità e quindi apparentemente abbandonatosi nell’Altrove, prevede ed impone la sua presenza e la sua imprescindibilità finalizzata a dare consistenza, concetto ed essenza all’opera manifesta. Un’iconografia dell’assenza, che nonostante si avvalga della consapevolezza dell’Hic et Nunc, di un tempo e di uno spazio non infiniti ed eterni, percepisce l’importanza della relazione e dello scambio; un rapporto silente, quasi un vincolo in cui è necessariamente prevista una totale
predisposizione mentale che si deve instaurare tra artista, opera e fruitore: quella che Caroline LeMéhauté definisce Négociation.
Négociation è il titolo che la Le Méhauté assegna praticamente a tutti i suoi lavori: Négociation più un numero, che identifica nello specifico a quale opera si sta facendo riferimento. Il termine Négociation che vede la sua traduzione letterale in italiano con negoziazione o trattativa implica e desidera interazione e reciprocità.
Questo scambio, come abbiamo detto, tra uomo-natura e opera ha il suo protagonista, se pur assente, nell’uomo. Come per esempio accade nell’opera Négociation 36: due tubi in PVC installati al terreno e ricoperti di fibra di cocco prendono le sembianze di un periscopio, e ogni qual volta installati in un determinato spazio assumono le coordinate esatte del luogo in cui “trovano dimora”. Lo sguardo deve perciò imporsi di andare oltre, nell’altrove a cui accennavamo prima, allargare gli orizzonti, coltivare i valori emozionali della socializzazione sia con i suoi simili che con la natura, focalizzando l’attenzione sulle qualità creative dell’uomo.
Le decisioni presuppongono sempre una rinuncia o comunque una scelta, comportando un dialogo con il sé, un’introspezione che è scrupolosamente esplicata con l’installazione Négociation 59, décisions sourdes, accompagnata da un sottotitolo che indica come le decisioni siano sorde o comunque silenziose, a tu per tu con noi stessi. Una stanza, una lampada, una sedia e un tavolo interamente ricoperti da torba di cocco. Sullo scrittoio si intravede uno specchio, chiaramente un richiamo ad un dialogo oggettivo e reale, se non fosse che lo specchio appare volutamente scalfito: a tal punto che la scena assume l’aspetto di un colloquio intimo che convoglia smaniosamente in uno spazio metafisico, viaggiando nell’empirismo, desiderando un’esperienza integrale di immedesimazione tra l’Io e il mondo esterno. Probabilmente la finalità non è quella di emulare il processo naturale, copiare pedissequamente, come accade spesso con una brutta copia, qualcosa o qualcuno fisiologicamente e fortunatamente distante da noi; il segreto, anche se di Pulcinella, tuttavia sovente non perseguito o peggio ancora non compreso, consiste nell’integrarsi nella natura, ascoltarne ed osservarne i cambiamenti ed il divenire.

Tutto questo accade anche nell’opera Négociation 57, grow, grow, grow, dove un “tappeto” di fibra di cocco “pulsa la vita”, si anima emettendo lievi e quasi impercettibili movimenti. Una comunicazione silenziosa, un respiro o forse un sospiro emozionale, un’esperienza che, come ci ricorda Edmund Husserl, riesce ad attraversare tutte le sue fasi: percezione, immaginazione e ricordo. Tre stati – e, direi, anche tre condizioni – che si vengono a creare anche nell’opera Négociation 66, Extended fields, che prevede la presenza simultanea di più elementi: una sedia, un cubo di torba al quale sono collegate delle casse acustiche che emettono una serie di suoni. Il primo impatto visivo ed in parte anche concettuale richiama alla mente l’opera One and three chairs di Joseph Kosuth: il pensiero certamente prevede delle relazioni che intervengono e si costituiscono quando si desidera formulare un concetto. Caroline Le Méhautè ha reperito la torba con cui successivamente ha creato questo piccolo cubo in Irlanda, durante un’escursione presso una delle più antiche montagne dell’isola.
La torba è un combustibile fossile di età quaternaria costituito da sostanza vegetale semicarbonizzata e satura d’acqua e rappresenta il primo stadio di trasformazione della materia vegetale in carbone. Significativo è che tale materia sia il substrato ideale per la crescita di alcune specie e che l’artista francese l’abbia utilizzata per la realizzazione della sua opera. Dal cubo di torba provengono due differenti suoni: il viaggio inizia con l’effetto acustico pervaso dai bassi, un’interpretazione del suono emesso nella terra dalle ipotetiche onde sonore, che progressivamente si trasformano nel rumore che effondono i campi magnetici del pianeta registrati nello spazio dalla NASA. In questa opera avviene una verticalità, un viaggio impossibile, immaginario ma reso possibile per mezzo del suono tra terra e spazio e conseguente ritorno.
Il tempo qui è assente, è un universo, un infinito ipotetico nel quale l’artista cerca di identificarsi con Colui che tutto crea immaginando un luogo altro dove sintonizzarsi con l’ambiente, che è poi inevitabilmente parte del sé, un “desiderio verticale” di reagire alla immobilizzante privazione d’identità.

Alberto Mattia Martini