Francolino / Ballestra – JOURNEY INTO REALITY
a cura di Alberto Mattia Martini e Paola Valenti
dal 23 gennaio al 23 febbraio 2013
Spazio Testoni ad Artefiera 2013: PAD. 26 STAND B60
Inaugurazione mostra in galleria
Mercoledì 23 gennaio 2013 dalle 20,30 alle 22.30
Venerdì 25 dalle 16,00 alle 22,30
Sabato 26 dalle 10,30 alle 24,00 in occasione di ART CITY WHITE NIGHT
Domenica 27 e Lunedì 28 dalle 10,30 alle 20,00
La Galleria SPAZIO TESTONI di Bologna presenta in Arte Fiera 2013 dal 25 al 28 gennaio 2013, Padiglione 26 – Stand B60, il progetto “JOURNEY INTO REALITY”, un allestimento di opere inedite degli artisti Andrea Francolino e Maria Rebecca Ballestra e presso la propria sede in Via D’Azeglio 50 una doppia personale degli stessi artisti curata da Alberto Mattia Martini e Paola Valenti, con inaugurazione mercoledì 23 gennaio 2013 alle ore 20,30, evento espositivo che fa parte del circuito ART CITY Bologna 2013 e ART CITY White Night di sabato 26 gennaio 2013 e che resterà visibile fino a sabato 23 febbraio 2013.
La presentazione per la prima volta insieme delle opere di questi due artisti, sia all’interno di Arte Fiera, che negli spazi della galleria durante la settimana bolognese dedicata all’arte contemporanea, consentirà ai visitatori di conoscere le più recenti interpretazioni artistiche di Maria Rebecca Ballestra e di Andrea Francolino, che entrambi traggono dalla realtà in cui viviamo l’ispirazione per la loro creatività ed espressività, ormai ampiamente note anche a livello internazionale.
La galleria Spazio Testoni ha invitato i rispettivi curatori di riferimento dei due artisti, Paola Valenti per Maria Rebecca Ballestra e Alberto Mattia Martini per Andrea Francolino, a presentare al pubblico le loro opere realizzate nel corso del 2012 e nel gennaio 2013, che fanno parte di questi eventi.
Andrea Francolino
Il packaging come emblema ed icona del consumismo riporta immediatamente ed inevitabilmente alla mente l’opera di Andrea Francolino; la sua è una ricerca accurata, un lavoro meticoloso, a tratti estenuante che agisce per mezzo della denuncia, servendosi di varie armi come: la pubblicità, il prodotto commerciale e in alcuni frangenti anche dell’ironia. Una presa di coscienza netta e determinata, che ha portato Francolino ad orientarsi verso un’ulteriore e se vogliamo ancora più sensibile e concettualmente approfondita analisi in comunione con l’essenzialità. L’indagine attuale, affinata ma anche più diretta, critica e cruda, si rivolge ad una tematica, che non prende in considerazione solo l’uomo occidentale nel suo habitat, ma in questo caso l’individuo viene fermamente obbligato ad un confronto con il suo simile, colui che vive nel così detto terzo mondo.
Andrea Francolino ha utilizzato uno scaffale da supermercato di circa sei metri, sul quale ha installato e disposto i prodotti commerciali recuperati dall’immondizia, ponendo così in relazione l’entità e quindi il peso della spazzatura che una persona appartenente ad un paese “sviluppato” produce nell’arco di un mese, con la quantità di prodotti che utilizza un uomo nel mondo “sottosviluppato” nello stesso lasso di tempo. Se invece volessimo rappresentare il peso della spazzatura che produce in un anno una persona che vive nei paesi più industrializzati, ci vorrebbero ben dodici scaffali come questo. I dati e il rapporto testimoniano una netta ed agghiacciante sperequazione: oltre 700 packaging consumati, pari a 44,944 di spazzatura minima generata da un abitante del mondo “sviluppato”, contro 5 packaging consumati da una persona che vive nel terzo mondo. Il rapporto, udite-udite è: 1/150! Il dato è evidentemente allarmante e pone in essere numerose considerazioni, che vanno dall’evidente differenza di potere economico commerciale e quindi del conseguente squilibrio della ricchezza tra i paesi più potenti e quelli poveri, l’utilizzo eccessivo, sproporzionato e sconsiderato che mettiamo in atto giornalmente, il più delle volte molto superiore al nostro reale fabbisogno e quindi inutile, e in ultimo, ma non meno drammatico, la quantità e la dannosità dei rifiuti e il conseguente problema dello smaltimento degli stessi, generati dall’uomo sviluppato e quindi in teoria più intelligente. Il bianco diviene per Andrea Francolino il colore non colore, una sorta di bene negato, di purezza che assume la fatale e spietata sembianza dell’avidità; quell’egoismo ed individualismo, che così bene identifica il mondo sviluppato dei giorni nostri, concentrato solo su se stesso e sempre più asetticamente apatico ed incolore. La silenziosa visione dell’opera, come afferma lo stesso Francolino, a cui è indotto il fruitore, viene evidenziata dal bianco, dalla voluta assenza del brand sui prodotti e dalla ruvida malignità umana, che ritroviamo anche nelle opere realizzate per mezzo di cemento grezzo. I packaging qui rimangono i
protagonisti, ma al posto del brand viene “sigillato” su ognuno di essi il termine che delinea ed esplica gli elementi inquinanti e di conseguenza tossici e nocivi, che lo stesso uomo “produce con tanta cura”. Il packaging diviene cemento, come il pane diviene carne e come corpi crocefissi, i prodotti cementificati assumono al loro interno l’essenza nociva dell’essere, che messo in croce redime se stesso e si spera, abbia la capacità di salvare il prossimo. Il calcestruzzo costituisce anche l’ossatura della determinante opera che riproduce la mappa di uno dei più grandi centri commerciali al mondo. Il Mall of America, detto anche MOA, si trova negli Stati Uniti ed è il centro commerciale più visitato al mondo, con quaranta milioni di visitatori ogni anno. Un luogo, o meglio un “non luogo” immenso, che Andrea Francolino ha scelto come emblema di quella società spesso piacevolmente attratta ed allietata dal superfluo, dall’effimero e che tenta invano di procrastinare il giorno della resa dei conti. Il tempo tuttavia per definizione non ha nessuna pietà, trascorre inesorabile modificando, rovinando e quindi alterando le fattezze primigenie. Il centro commerciale diviene così sinonimo di un territorio dove regna l’alienazione, la standardizzazione, una zona artica ed impersonale come il cemento, crepato dalla mancanza di emozioni reali, che pare assumere le sembianze di un labirinto all’interno del quale si è perduta la singola identità o una sorta di Stele di Rosetta del terzo millennio, imprescindibile per la decifrazione dell’uomo contemporaneo.
Alberto Mattia Martini
Maria Rebecca Ballestra
La fragilità del nostro pianeta – tema al quale Maria Rebecca Ballestra ha dedicato l’intenso progetto, attualmente in corso, Journey into Fragility (www.journeyintofragility.com) – è il problema cruciale che l’intera umanità dovrà affrontare in un futuro ormai così prossimo da essere da molti avvertito come già presente.
Le varie tappe del work in progress itinerante ideato da Ballestra traendo ispirazione dalla Carta di Arenzano della Terra e dell’Uomo, concepita e creata dal poeta ligure Massimo Morasso, offrono testimonianza delle preoccupazioni, delle contraddizioni ma anche delle soluzioni con cui, in diverse parti del mondo, popolazioni appartenenti a culture diverse affrontano, più o meno consapevolmente, l’emergenza del sempre più precario equilibrio tra la natura e l’uomo. Proprio dalla necessità di provare a risolvere, almeno in parte, questo problema hanno tratto la loro forza visionaria realtà come quella della moderna città araba di Masdar City (Abu Dhabi), alla quale Rebecca Ballestra ha dedicato un affasciante lavoro fotografico, dai tratti avveniristici, durante la quarta tappa del suo lungo viaggio: detta anche la Città Giardino, Masdar City è un modello di città sostenibile, progettata per offrire elevati standard di vita e ottimali condizioni lavorative con il minore impatto ambientale ed ecologico possibile. Masdar City è la concreta risposta, fornita da Abu Dhabi – realtà leader nell’economia mondiale per la produzione di idrocarburi – ad alcuni dei più pressanti problemi dell’umanità: la sicurezza energetica, i cambiamenti climatici e lo sviluppo delle competenze umane in rapporto alla sostenibilità.
L’urgenza della situazione ambientale impone, infatti, l’assunzione di responsabilità da parte non solo delle grandi realtà politiche ed economiche ma anche di ogni singolo individuo che sia in grado di comprendere l’importanza del proprio apporto e di maturare la consapevolezza del proprio essere parte integrante di un sistema fondato sulla reciprocità e sulla concatenazione dei comportamenti, delle scelte, delle azioni. Proprio ragionando su questa problematica l’artista ha concepito – durante la quinta tappa del viaggio intorno al mondo che l’ha portata in Cina, e per l’esattezza nel Sunhoo Industrial Innovation Design Park di Fuyang, nella provincia dello Hangzhou – l’installazione I’m because you are: è suggestivo interpretare, anche sulla scorta della filosofia taoista, l’affermazione che dà il titolo all’opera – io esisto perché tu esisti – come un monito rivolto dalla personificazione della Natura all’Uomo, universalmente inteso, per rammentargli la condizione di interdipendenza che lo lega non solo agli altri esseri viventi ma anche, e soprattutto, al mondo naturale, con il suo complesso sistema di elementi auto-generanti, a loro volta in continuo cambiamento e interazione, che necessita di essere ascoltato, interpretato e rispettato.
Il muro di mattoni che domina l’installazione è un esplicito riferimento al vertiginoso sviluppo edilizio che sta interessando Fuyang, con la conseguente trasformazione d’intere aree agricole in zone industriali e residenziali. Sebbene la città rappresenti, a livello nazionale, un modello per la protezione dell’ambiente, l’impatto di questi cambiamenti sul paesaggio, dominato dalla presenza di monti e corsi d’acqua, si sta rivelando massiccio e radicale, rendendo drammatico il contrasto tra il valore attribuito alla natura dalla tradizione culturale e filosofica cinese e la spinta verso la crescita economica che sta trasformando il paese. Per accentuare tale contrasto tra antichi e nuovi valori, Rebecca Ballestra ha dipinto di rosso alcuni mattoni del muro, formando così il trigramma K’un (Terra), uno degli otto trigrammi tramandati dall’I Ching, documento tra i più antichi al mondo, databile in forma scritta a circa 3000 anni fa: il trigramma K’un simboleggia una figura materna, a ribadire che è nella natura che risiede il principio della vita.
Sul muro e sul pavimento intorno ad esso si trovano decine di libellule colorate, mentre una video-proiezione rimanda le immagini di libellule in volo: sono il simbolo dell’illusione e del cambiamento e, significativamente, vivono a migliaia a Fuyang, città in cui oggi si vive l’illusione di poter cambiare nel rispetto della natura e le sue esigenze. Quanto ardita e rischiosa sia questa prometeica sfida sembrano volerlo testimoniare, con la loro sovrana presenza, i giganteschi animali che, in una possibile futura era postumana, potrebbero dominare incontrastati gli edifici costruiti, nel passato, da altrettanto ambiziosi uomini.
Paola Valenti