FABIO GIAMPIETRO nasce a Milano nel 1974, dove vive e lavora. Si laurea nel 1998 presso l’Istituto Universitario di Lingue Moderne IULM a Milano
Realizza dipinti spesso di grandi dimensioni su cui stende il colore ad olio per poi raschiare via quello stesso pigmento e far emergere il bianco della tela a creare effetti di luce e contrasti tonali con i grigio-ocra della pittura che danno forma alle architetture.
I quadri di Fabio Giampietro posseggono una qualità emotiva profonda che è capace di liberarsi dalle strettoie della veduta urbana tout court e dagli stili che le appartengono per camminare borderline con il sogno, la meta-metromorfosi, la vertigine e talvolta l’incubo. Pur muovendo spesso da episodi architettonici reali, esse riescono in questo modo a trasfigurare la realtà per conferire alle immagini un’atmosfera sospesa e onirica che contiene dentro di sé una pluralità di riferimenti alti e bassi e che richiama tanto le atmosfere noir di Sin City, il film del 2005 diretto da Robert Rodríguez, Frank Miller e Quentin Tarantino, quanto il simbolismo orfico di alcune invenzioni di Odilon Redon, la paradossalità percettiva di M. C. Escher e i vortici di certe prospettive “extra-terrestri” dell’Aeropittura futurista di Tullio Crali e Gerardo Dottori.
In questo modo ogni quadro diviene una visione unica e particolare che si colloca con diverse gradazioni in uno spettro che va dalla verosimiglianza topografica dei luoghi fino all’estremo opposto dell’assurdo, del chimerico, dell’onirico, del parascientifico. Lungo questo asse si dispongono le opere dell’artista, assecondando, alcune più e altre meno, questi aspetti e queste tonalità psicologiche e facendosi serbatoio di un’energia culturale che ingloba dentro di sé cifra astratta e potenzialità figurativa, piacere della creazione libera e rigore spirituale della forma, spontaneità e progetto. Per Giampietro questo significa aver sdoppiato, triplicato e moltiplicato i suoi punti di fuga, spaziali e mentali, in una nuova mappatura psicologica dove i riferimenti non appaiono più convergenti, ma sempre felicemente alla deriva, pronti a spiazzare ogni certezza o consuetudine acquisita. Ecco quindi la paradossale distanza posseduta dalle immagini create dall’artista: sono visioni evocate, e mai semplicemente riprodotte; in esse la vita reale risuona come un’eco lontana, e la tensione al movimento che vi si avverte non riguarda tanto il percorrere una distanza reale quanto la vertigine del dubbio, della ricerca, della capacità di provare stupore, della posizione dell’artista che non rivendica un solo ruolo ma riesce a muoversi in molti di essi, facendo giocare insieme i propri fantasmi individuali e quelli della collettività, le proprie mitologie personali e quelle condivise, transculturali e archetipiche.
I luoghi diventano così paesaggi mentali, metafore e protesi della corporeità, acceleratori di energie, super-connettori di esperienze, vettori privilegiati di allucinazioni urbanizzate e dei possibili crocevia dell’esistenza di chi abita il mondo contemporaneo. Resta a ciascuno di noi la scelta del suo sogno più entusiasmante o del suo peggior incubo.